La tartaruga ritrovata e il volpino salvato: le storie a lieto fine (e quelle che non lo sono)

La tartaruga ritrovata e il volpino salvato: le storie a lieto fine (e quelle che non lo sono)


Play all audios:


Chalky e Spot, amici per la pelle, sono due tartarughe del Suffolk sessantenni che da oltre cinquant’anni vivono con gli Harris, la loro famiglia umana. Un giorno, mentre giocavano in


giardino, Chalky, che si sentiva particolarmente avventuroso, è uscito dalla proprietà prima che i suoi familiari potessero accorgersene. Spot ha cercato di seguirlo, ma non è stato


altrettanto veloce. Gli Harris hanno cercato Chalky ovunque, senza però trovarlo. Ed erano molto preoccupati, essendo la tartaruga a tutti gli effetti un membro di famiglia. In particolare,


ad esser disperata, era la figlia Ella, nove anni, che ha sempre aiutato i genitori ad occuparsi delle due tartarughe. E proprio ad Ella è venuta un’idea: perché non disegnare Chalky e


tappezzare di poster la propria cittadina? Così ha fatto, cercando di disegnare Chalky nel modo più simile possibile. Presto, i poster hanno adornato tutti i pali della luce del villaggio.


Ma erano ormai passati sette giorni, e ritrovare la tartaruga sembrava impossibile. Non sapevano, gli Harris, che Chalky era stato già trovato. Non troppo lontano da casa - dopotutto è una


tartaruga di una certa -, da un signore che, preoccupato per la sua sicurezza, avendolo trovato a vagare su una strada trafficata, aveva subito chiamato la protezione animali, decidendo di


restare con Chalky finché non fossero arrivati a prenderlo. Presto, si è presentata Nicola, volontaria dell’RSPCA, che proprio mentre stava portando Chalky al sicuro in un rifugio, ha


adocchiato sulla strada i poster col disegno di Ella, e si chiesta se non fosse proprio quella la tartaruga perduta. Avete già capito com’è andata a finire. Quella dei poster di Ella che


hanno permesso di ritrovare Chalky è una delle più belle storie raccontate ultimamente dal sito The Dodo. Come il baby-volpino caduto in un pozzo e salvato da due operai tenaci mentre la


mamma volpe guardava con apprensione un po’ distante, come i sub che vedendo uno squalo intrappolato in una rete non hanno esitato a rischiare la propria incolumità per liberarlo - e lo


squalo poi li ha ringraziati fermandosi a farsi fotografare e filmare per un’ora. Vorremmo che tutte le storie di animali fossero così. Edificanti, a lieto fine. Storie che ci fanno sentire


migliori come genere umano. Purtroppo, la realtà è molto diversa, e per ogni salvataggio o adozione del cuore ci sono moltissime storie di maltrattamento e di abbandono. Storie strazianti,


storie che non vorremmo sentire - perché una volta che lo sai non puoi fingere di non sapere. Giorni fa, The Humane League, associazione non profit del Maryland che si batte per denunciare


le sofferenze e migliorare le condizioni di vita degli animali da allevamento, ha condiviso una foto. Di un vitellino con una strana museruola, dalla quale partivano lunghe punte di ferro.


Il sistema usato, informano, in certe fattorie, che pure allevano all’aperto, per impedire al vitellino di bere il latte della mamma - quello che lei produce per lui. Ogni volta che il


vitellino prova a bere, le punte di ferro spingono contro il corpo della madre (se proprio non vi si conficcano), provocandole moltissimo dolore, finché la mucca non finisce per rifiutare il


vitellino. Rifiuta suo figlio, cioè, a causa di uno strumento di tortura pensato dall’uomo. Al pari di maiali e polli, le mucche subiscono atrocità indicibili, come è ben documentato in


centinaia d’inchieste giornalistiche e video di associazioni animaliste. Come quello di una mamma che in un grande allevamento dà l’ultimo saluto al vitellino appena nato che viene


trascinato via. O quell’altra che, in Nuova Zelanda, dove i vitellini maschi vengono macellati al quarto giorni di vita, insegue invano, disperata, il furgone coi suoi figliolini dentro. Una


verità scomoda. Se i mattatoi avessero le pareti di vetro, diceva Tolstoj, saremmo tutti vegetariani. Ma questi video non sono girati per farci sentire in colpa: sono girati per denunciare


ed informarci, per farci riflettere su quello che troppo spesso comportano le nostre scelte di ogni giorno. Sono girati per appellarsi alla nostra umanità, una parola bellissima di cui si è


perso il senso, e non solo verso gli animali. L’umanità si è persa in una sala di tribunale di Phoenix (Arizona), giorni fa. Quando un bambino di appena un anno dell’Honduras, separato dai


genitori, è stato costretto a presentarsi di fronte al giudice da solo. Uno di centinaia di bambini che in pannolini e biberon sono costretti a presentarsi in tribunale, e il 90% di quelli


che non ha un avvocato (e come potrebbe un bambino di un anno ingaggiare un avvocato?) viene espulso. Deportato, a un anno, senza i genitori. Quel bambino di un anno che davanti al giudice


imbarazzato piange e chiede dell’acqua, è il simbolo della nostra disumanità. Ma è davvero poi così diverso dal vitellino appena nato che si dispera e si contorce mentre davanti agli occhi


della mamma viene trascinato via, forse verso il macello? 11 luglio 2018 (modifica il 18 giugno 2019 | 15:53) © RIPRODUZIONE RISERVATA